Conta quel che rimane. Conto di tornarci in questi posti. Per quel che conta. Per quel che conto, sono stati 318 lunghi chilometri. Non conta se pochi o molti. Ne ho contati quasi 8 da salire. E poi scendere. E salire. E scendere. E salire. Ho perso il conto, invece. Non ho contato i tentativi che uno fa di riempire cassetti del cervello con i ricordi che contano. Quando cammini così, i ricordi che contano sono molti, e non esista memoria che li possa tenere bloccati, stronzi.
Ho cercato più volte di costruire nella mia testa una risposta adatta a tutte le persone che mi hanno chiesto “perché lo fai?”. Non ho mai saputo dare una risposta compiuta, precisa, pensata. Una di quelle che quando la senti ti lasciano come un cretino a chiederti “ma io ce l’ho una cosa così nella mia vita?”. Io mi sono sentito più volte così, e mi è piaciuto. Quando succede, rimbalzano in testa centinaia di domande. E per ogni domanda che ci si pone esiste ancora un pezzo di speranza di non morire mai. Io ce l’ho una cosa così nella mia vita? Insomma, uno lo può anche fare un tentativo per spiegarlo e magari fallire, non siamo mica tutti Cesare Pavese per pensare di riuscire a scrivere righe che ti gelano il sangue.
-Io mi ricordo quando ero piccolo- e bene, il verderame che il nonno metteva sugli alberi. Puzzava e non sapevo cosa fosse. Mi ricordo che stare in mezzo agli alberi, con lui, a me piaceva tanto. Non sapevo fare niente, ma sapevo benissimo osservarlo e ricordarmi tutto. Ancora oggi, come fossero momenti che continuano ad accadere ogni giorno, ogni ora, ogni pomeriggio d’estate e ogni mattina d’inverno per tutte le estati e gli inverni della mia vita. Di quelli che te li ricordi perché li hai vissuti qualche secondo fa, come fai a scordarli? Io mi ricordo le sue azioni melliflue che stringevano forte tutto il significato della vita di una persona. Quello per cui nasci, per cui ti danno gli schiaffi che fanno male ma che ti fanno crescere con la schiena dritta, in questo mondo di delinquenti.
Io penso che qui può esserci un piccolo spiraglio di risposta a quella domanda, che deriva dalle mie radici: io sto bene quando sono in mezzo alle persone semplici. Quelle che non hanno niente e niente gli serve. Le persone che incontri accanto ad una vacca, affogati nel puzzo di merda, o sotto a un albero. Quelli che stanno con i pantaloni lunghi sotto al sole a guardare i passanti, con gli occhi stanchi e umidi. Io ci sto proprio bene in mezzo a quelli che non hanno bisogno di niente, perché mi fanno ricordare che le cose che io inseguo e voglio, invece, non contano niente. Provo a mettere ordine, dunque: quando parto, mi ricongiungo in una qualche maniera ai miei ricordi epicardici e ancestrali. E questo, nella vita di un uomo, conta.
Il cammino di ognuno di noi può non essere religioso, ma è necessariamente spirituale. Non esistono cammini che non racchiudano al loro interno, in una qualche occasione, un significato spirituale. Voglio dire, non scegliamo di camminare centinaia di migliaia di passi per ragionare sul senso della vita, ma succede inevitabilmente che questo si sciolga, liso, in una sua parte, proprio mentre camminiamo. E quasi sempre si porta dietro il concetto di serendipity (va scritto in inglese perché il termine è inglese). Semplicemente, accadono alcune cose. E alcune delle cose che accadono rendono i cammini semplicemente non replicabili. Non esiste nessuna attività al mondo, nella vita di una persona, capace di restituire al corpo, alle vene, alle ossa e al cuore questo tipo di sensazioni. Ad esempio, io ho assaggiato il sidro Asturiano quasi ogni giorno fino al giorno in cui siamo entrati in Galizia. La -sidra de Asturias- è una bevanda tipica ottenuta dal succo di alcune particolari mele. Il modo in cui si ottiene questo sidro è molto simile a come si fa il vino (in versione, ovviamente, molto semplificata). Insomma: raccolto, pressature, riposo, mosto, fermentazione, filtraggio, imbottigliamento. Ha un colore giallognolo ed un sapore fresco, acido e con un retrogusto di mosto di mele che ti sputa in bocca migliaia di anni di storia (è una bevanda antichissima). Ma la storia è indelebile perché lo abbiamo bevuto dopo aver camminato decine di chilometri faticosi e caldi accanto ad alberi di mele che non si possono mangiare. Ci riparavano dal sole, ci regalavano profumi nuovi mentre dovevamo stringere i denti per qualche dolore alle ginocchia o alla schiena. Ci siamo tutti domandati, senza dire niente, se possa bastare davvero così poco nella vita di ognuno di noi per stare bene. La risposta è arrivata a tavola, dopo un solo giorno di cammino: il sidro va bevuto “despacio-despacio” peró va vuotato tutto il bicchiere appena versato. L’anidride carbonica deve restare imprigionata come i pesci nelle reti, da quelle parti è così. Ed è fresco, è un nettare degli dei, un miele della vita di altre persone, le stesse che ci hanno cucinato un -pulpo á feira- incredibile.
Ciò che conta, in un cammino, è avere la consapevolezza immobile che tutto ciò che succederà sarà unico, non replicabile. Ci sono cose che non si possono comprare, e quelle cose spesso accadono dopo centinaia di chilometri, con le gambe rotte, dopo salite che ti prendono a schiaffi, ogni volta che hai la forza di superare i sacrifici che richiedi al tuo corpo. Questo conta, trovare significati mistici nascosti dietro gesti semplici, e portarseli a casa come spillette d’onore appese ad una divisa invisibile.
Adesso continuo, andante.
-Un giorno, uno studente chiese all'antropologa Margaret Mead quale riteneva che fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l'osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Mead disse che aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto in cui la civiltà inizia. Noi siamo al nostro meglio quando serviamo gli altri.-
Io cammino per trovare sempre, in tutto il mondo, lo stesso senso di dolce e soave carità che l’essere umano non sa dimenticare di avere. Durante i cammini, non ci sono estranei. Non esistono nemici. Non si giudicano i diversi (diversi da chi, perdio?). Durante i cammini ci si aiuta. Si da una mano a chi ha bisogno. Durante i cammini nessuno lascia perdere una persona che soffre, che chiede aiuto. Durante i cammini nessuno pensa che si possa, in questi anni di merda, avere facoltà e impudenza di lasciar morire bambini in mare. Questo è ciò che conta e un’altra risposta alla domanda: siamo nati per aiutare, non per affogare.
Penso che non si possa vivere sempre in questo modo, perché la vita è una sommatoria infinita di infinite sfumature e scelte. Sono invece certo che ci debbano essere momenti di vita umbrátile, risoluti, calmi. Quelli che passi da solo per provare a mettere ordine a tutti gli eventi e le smanie che ti cuci addosso. Ma arriva un momento in cui bisogna partire, e farlo nel modo più atavico e naturale possibile. Camminando, senza nulla di più che non possa servire a questo. È importante spogliarsi di ogni cosa, togliersi i segni delle ansie e delle paure, lasciare ogni comodità e abitudine. Torno qui ad un autore che ho da poco scoperto leggendo -La luna e i falò- un capolavoro senza tempo.
“Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali.” Cesare Pavese
Il -Camino de Santiago Primitivo- non è stato il primo e non sarà l’ultimo. Ho ancora fame di cammini. Di tramonti nuovi, di gusti strani, di odori forti, di persone lontane. Conservo ancora in me così tanta energia e voglia per continuare a salpare, invece che far ritorno. Ecco perché lo faccio: perché è una essenziale valvola di sfogo alla mia voglia di conoscenza. Perché non sapevo cosa fossero gli -hórreos- e adesso lo so perché ce lo hanno detto quattro vecchi che giocavano a carte e che erano belli come il sole. Perché non avevo mai visto così tanti animali al pascolo senza regole, senza paure, senza vergogne. Perché non avevo mai assaggiato un caffè israeliano, non avevo mai strozzato la fame con un -chuletòn-. Perché non avevo mai dormito ogni notte in ostelli che hanno dentro le storie di tutto il mondo (e sperato di capitare nel letto abajo, non in quello arriba). Perché non avevo mai visto così tanti colori in un sentiero: orge di colori che non stanno bene in nessuna tavolozza ma solo negli occhi. Non so poi se sono riuscito a pregare -la Madonna dagli occhi grandi- a Lugo, ma di sicuro ci ho provato (considerando che non sapevo nemmeno da che parte iniziare, io premierei il tentativo). Lo faccio ancora perché ho imparato a giocare (male) a tressette, mi sono appassionato a storie di draghi e spezie magiche e ho deciso di leggere Tolkien per la prima volta in vita mia (e mi sta piacendo indefinitamente). Lo faccio perché ho ancora una immensa voglia di farmi male alle ginocchia, di spaccarmi a metà i piedi, di sentire il dolore che ti attraversa le vene e risale tutti i vicoli nascosti delle ossa, e non se ne va fino a che non lo accetti insieme a te, come fosse un ospite aspettato. Lo faccio perché ho ancora una voglia gigantesca di immergermi e sciogliermi nelle vite della gente del posto, invisibile, silenzioso, guardarli mentre bevono il vino nelle “copas”, un recipiente antico come antica è Roma.
Lo faccio perché il cammino è una reiterazione lenta e metaforica della vita di ogni uomo che ha, radicati dentro di se, i valori di sacrificio e volontà: il dolore costante per raggiungere una meta. E vivere tutto ciò che succede nel percorso per arrivarci. E quando questa è raggiunta, guardare la prossima. Trovare la forza nella mente e regalarla al corpo consunto. E poi raggiungerla nuovamente, compiacersi e brindare fino all’attimo prima in cui ci si accorge che esiste una nuova strada, più difficile e più in salita. E ancora, ancora, ancora.
Ho ancora sete, datemi da bere.
Conta quel che rimane quando le cose della vita finiscono. Avevo molti motivi per fare questo pellegrinaggio. Non ho nessun motivo, neanche uno, per non rifarne un altro.